30 Giugno 2025

Il mare oscuro e profondo non le era mai piaciuto. Nonostante questo, per un tempo incalcolabile, Miriam rimase protesa, gli occhi fissi come ipnotizzati, sopra quella immensa oscurità, il busto fuori dalla barca, la lunga e folta treccia biondo cenere a lambire l’acqua constatando anzi con orrore di sentirsene attratta, come se fosse in sintonia con l’abisso della sua anima.

Raffaele uscì con furia dal fondo della barca saltando l’ordine naturale di sbarco e il violento dondolio improvviso che provocò fece tornare Miriam alla realtà. L’allenatrice lo aveva retrocesso all’ultima panca, lui che negli ultimi quattro anni, aveva sempre guidato la testa del Dragone. Ad ogni compagno che passava riservava una ginocchiata o un colpo di pagaia e quando arrivò all’altezza della panca occupata da Miriam le diede una spinta in mezzo alle scapole così impetuosa da farla piegare in avanti. “Oh ma sei incredibile!” lo ammonì Ginevra che da quando Miriam aveva iniziato questo sport era la sua compagna di panca fissa. “Si mi raccomando tu, subisci!”. Ma Miriam all’ennesima stoccata di Raffaele nei suoi riguardi, anziché risentirsi, ne aveva sorriso. Poi quando fu certa che nessuno la stesse osservando si toccò le spalla nel punto in cui lui l’aveva colpita e chiuse gli occhi. Mentre i compagni tiravano in secca la barca con la stessa foga Raffaele uscì dall’hangar, attraversò come un ciclone il cortile e facendo slalom tra i compagni scomparve lasciandoli da soli a issarsi il pesante Dragone. “Ma cos’ha ancora, si può sapere?” chiese il capitano spazientito da quell’ennesimo atto di soverchieria. “E’ ora che lo capisca che con la sua separazione noi non c’entriamo”.

Miriam seguì Raffaele con lo sguardo fino a che ebbe girato l’angolo. In quei mesi di frequentazione del Circolo aveva più volte notato che il ragazzo era l’unico a non andare via con un mezzo a motore. Quel pomeriggio decise che ne avrebbe saputo di più e, con una prontezza di spirito che stupì lei per prima, si fece una corsa fino al parcheggio con la scusa di andare in auto a prendere l’occorrente per cambiarsi. Di Raffaele nessuna traccia, sembrava essersi dissolto nella nebbia serale. I suoi sospetti che il ragazzo non avesse lì un mezzo di trasporto erano quindi fondati? Ma come faceva ad arrivare e andare via dal porto che distava chilometri dalla città? Dove spariva ogni volta che finiva gli allenamenti? E come tornava a casa? Il molo era un rettilineo lungo qualche chilometro che collegava il porto alla periferia sud della città, non aveva traverse laterali, solo barche ormeggiate sul mare da un lato ed un alto muro di contenimento su quello opposto. Lasciato il parcheggio, e percorsi a piedi circa cinquanta metri, Miriam si trovò davanti un peschereccio abbandonato che stava lì ormeggiato ormai da parecchio tempo. Le avevano raccontato che si trattava di una nave minore usata per la piccola pesca artigiana, la pesca costiera che si pratica lungo le coste e che era stata confiscata ad una cosca mafiosa. A considerare la quantità di ruggine che rivestiva le parti esterne della prua ed il groviglio di reti e galleggianti incrostati di salsedine che ne ricoprivano il fondo, la nave appariva in stato di abbandono eppure, a guardarla da vicino, alcune parti di essa dicevano proprio il contrario: il legno della cabina di comando a bande blu e rosse e la scaletta che conduceva agli alloggi di prua erano molto curati. Anche la scritta ‘Il Rugantino’ collocata sulla fiancata a poppa del natante, e che una volta era stata di un bel blu elettrico, aveva le lettere R e G dipinte di fresco mentre le altre erano ormai quasi illeggibili. Insomma, quel peschereccio parlava di una attività conclusa ma di un angelo che lo proteggeva. Miriam notò che da uno degli oblò della cabina filtrava una debolissima luce, percettibile solo perché il buio intorno al molo iniziava ad infittirsi: nonostante la paura iniziasse a farle accelerare il cuore, la curiosità ebbe il sopravvento e la ragazza si ritrovò senza accorgersene a metà del traballante ponticello di ferro che collegava la barca alla banchina. Era ormai giunta a metà che un moto ondoso improvviso fece dondolare quella risicata passerella così Miriam per non cadere si aggrappò saldamente alle cordicelle corrimano ma anziché tornare indietro, come avrebbe fatto qualsiasi altro povero diavolo terrorizzato, come in trance vi si sporse sopra: per la seconda volta quella seducente oscurità la attraeva e la tranquillizzava e lei capì che era fatta dello stesso buio che albergava il suo cuore.

Dalle auto che passavano sul molo qualcuno, pensando di dissuadere una suicida, iniziò a chiamarla e a suonare i clacson così, più arrabbiata che imbarazzata, Miriam tornò indietro e di colpo fu di nuovo sulla banchina. Tornata alla sua consueta assennatezza fu assalita da mille domande: come le era saltato in testa di mettersi a rischio lì sul mare? E per di più a quell’ora in cui il tramonto lasciava il passo al buio della sera? E poi quella non si chiamava violazione di domicilio? Era stata proprio avventata e doveva ringraziare il cielo se la guardia costiera non era già accorsa per arrestarla. Delusa ed indispettita con sé stessa per avere lasciato a metà quella impresa, Miriam diede un ultimo sguardo alla nave e notò che alla base della scaletta che saliva agli alloggi stavano allineate un paio di scarpe da barca, come quelle che usavano gli atleti sul Dragone. Il sospetto che qualcuno avesse scelto quella dimora galleggiante come ricovero o addirittura come casa stabile, al momento però sarebbe rimasto irrisolto. E lei, che no, non aveva certo lo spirito della crocerossina, già si era vista portare coperte e cibi caldi al povero occupante di quel gelido rifugio. Ma chi poteva essere così disperato da essere costretto a scegliere quell’accomodamento? Raffaele? No, non lui di sicuro; era sempre ben vestito e odorava di pulito. Proprio in quel momento la voce di Ginevra, che la chiamava dall’ingresso del Circolo Velico, si fece strada attraverso una fitta nebbia: “Miriam dove sei?” Così di corsa tornò sui suoi passi accompagnata dalla sensazione di sentire ancora sulle spalle la mano di Raffaele che la sospingeva. Quando un’ora dopo prese l’auto si accorse che, bloccato dai tergicristalli, c’era un foglio ripiegato in quattro: era il menu giornaliero del ristorante ‘Al Molo’ che si trovava proprio all’ingresso del porto sulla via Degli Archi, sul quale qualcuno, cerchiando le lettere con un pennarello rosso, aveva composto questo messaggio: NON FARTI PIU’ VEDERE

     Raffaele si faceva notare per la sua bellezza nordica nei colori e nei lineamenti e mediterranea nella corporatura massiccia e prepotente (era figlio di una cuoca svedese e di un marinaio locale) ed il suo modo di fare sfrontato e rude cozzava con quell’aspetto angelico. Da quando la moglie lo aveva lasciato – almeno così lui aveva raccontato a tutti – era diventato astioso ed irritabile: il canoista di punta del dragone, generoso e altruista con i compagni, sempre disponibile al sacrificio in allenamento e in gara era sparito, sostituito da un collerico musone.

  Miriam era arrivata al Circolo i primi giorni di Maggio spinta da Ginevra, l’amica di infanzia, che le aveva descritto quello sport di canoa a squadra come un toccasana per le sue ferite. “Devi tornare a vivere, Miri. Non puoi restare vedova e rinchiusa in casa per sempre. Devi conoscere gente nuova e soprattutto single”. E quando le prepotenti piogge invernali avevano lasciato il posto al tepore primaverile Miriam aveva ceduto alle insistenze dell’amica. Voleva bene a quella compagna di liceo così chiassosa e provocante, di una bellezza sfrontata e prorompente capace di regalare gioia a chi le stava intorno; tutto il contrario suo da sempre timida, riservata e rigorosa schiacciata da un bigotto moralismo borghese avuto in eredità dalla famiglia. Aveva conosciuto Andreas in Ungheria: lui militare di fanteria, era in licenza premio e lei si trovava lì in viaggio commemorativo per il ventennale del diploma. Appena qualche mese dopo Miriam e Andreas erano sposati ed in partenza per la base militare di Aviano e appena un anno dopo Andreas cadeva in Afganistan mentre con il suo battaglione proteggeva l’ingresso di una classe di studentesse in un liceo femminile a Kabul. E da quel giorno Miriam aveva smesso di vivere.

Al suo primo ingresso al ‘Circolo Velico’ l’allenatrice l’aveva presentata in fretta a quella folla di atleti che si accalcava sulla banchina per guadagnare la propria postazione in barca. Impacciata e intimidita dalla prestanza di quei giganti che le venivano incontro con trasporto, l’attenzione di Miriam era stata attratta dall’unico ragazzo che si era tenuto lontano dal clamore del gruppo e se ne stava seduto sul bordo di una barca, con le mani incrociate sul petto fissandosi la punta delle scarpe: un’aurea di tristezza permeava tutto la sua figura e velava di morte quegli occhi colore del mare. Come attratta dall’aria misteriosa che trasmetteva, Miriam gli si avvicinò porgendogli la mano ma Raffaele, con studiata lentezza, fissò sugli occhi di lei uno sguardo così ostile che le raggelò l’animo. E per smorzare quella tensione, che anche lui aveva sentito, distogliendo il volto, l’apostrofò con un “Ecco, un’altra frustrata in cerca di compagnia”. Poi brandendo in aria la sua pagaia, come fosse una sciabola, attraversò con furia il cortile per andare ad atterrare con goffaggine sulla canoa che dondolò pericolosamente. E, come sempre, nessuno gli disse nulla, tanto sapevano come era fatto.

Il Circolo velico era ubicato alla fine del porto, in quella zona del molo in cui transitavano navi militari e da crociera, fregate di diverse nazioni e piccole imbarcazioni che alla luce delle lampare salpavano di notte per andare a pescare. Il suo biglietto da visita era un ampio cortile che accoglieva i visitatori del circolo attraverso il quale si accedeva ai locali interni che ospitavano due spogliatoi, una palestra ed un salottino bar. Questa terrazza, di circa trenta metri quadrati, era delimitata da una staccionata in legno che correva lungo tutto il suo perimetro: su un lato stavano le tre barche che servivano per gli allenamenti e sul lato opposto, sormontato da un muro in pietra lavica coperto da una cangiante vite americana, c’erano delle panche e delle poltroncine a formare un salottino a cielo aperto nel quale gli atleti, quando il tempo lo permetteva, si intrattenevano.

      Come ogni anno, sul finire dell’estate, il Circolo Velico organizzò una cena per salutare la bella stagione che si apprestava a finire: ‘Festa di fine estate’ l’avevano chiamata, con un protocollo che esigeva l’abito elegante per tutti i convitati. La terrazza, illuminata da mercantili stranieri e da imponenti navi da crociera che quella sera erano ormeggiati su quello specchio di mare, era stata ulteriormente abbellita con fili di luci colorate e festoni di carta che pendevano dalla tettoia in legno.  Al centro c’era una grande tavolo che mostrava i cibi più accattivanti che un menu estivo potesse presentare. Miriam insieme alle compagne di barca andava avanti e indietro portando paste fredde, caponate in agrodolce, involtini di pesce, antipasti multicolori, timballi di pasta e pane condito con tuma e olive. La serata era tiepida e un leggero grecale faceva stringere le donne nei loro vivaci scialli. Raffaele stava, come al suo solito, seduto sul bordo di una barca fissandosi la punta delle scarpe di tela bianche ed ogni tanto sollevava il suo volto contratto verso le stelle che iniziavano a luccicare in quello splendido cielo di fine settembre. Alle ragazze che gli trottavano davanti indirizzava una smorfia o regalava una battuta sarcastica. Dopo l’ennesimo passaggio obbligato, Miriam, che portava alla tavola un piatto di fantasiosi antipasti, incontrò lo sguardo di Raffaele e gli rivolse un sorriso di cortesia. Per la seconda volta Raffaele rimase turbato dall’intensità degli occhi di lei e per uscire da quella penosa quanto pericolosa situazione che lo turbava, scattò in piedi andando inavvertitamente ad urtare la ragazza che perse l’equilibrio e finì lunga per terra con gli antipasti che volarono per aria.

“Cara, tutto bene?” chiesero in coro le amiche mentre accorrevano in suo aiuto. “No, non mi sono fatta nulla tranquilli”. “Peccato!” sbottò istintivamente Raffaele allontanandosi dal gruppetto. Mauro che aveva assistito alla scena gli venne vicino: “Va’ a scusarti con lei e poi vai a farti due passi: ti schiariranno le idee”, gli suggerì evitando di farsi sentire dagli altri. Il timoniere e capitano della squadra nazionale Mauro Galassi aveva un forte ascendente sugli atleti e in generale su chiunque entrasse in contatto con lui: il viso segnato dalla salsedine e dalle intemperie della vita restituivano l’aspetto di un uomo saggio e comprensivo ma la sua figura imponente richiedeva rispetto e tatto, tanto che Raffaele si trattenne qualche secondo prima di rispondergli, “Me ne vado, d’accordo, ma quanto a chiedere scusa non ho nessuna ragione per farlo”. E facendosi strada a spintoni tra tutti quelli che gli si erano fatti contro si diresse a grandi passi verso il cancello urlando, “Tenetevi pure il mio cibo!”. Riavutasi dallo spavento, mentre Ginevra le tamponava la sbucciatura sulle ginocchia con acqua ossigenata, Miriam le chiese: “Di quale cibo parlava?” – “Del gâteaux di patate che ha portato per la cena” – “Ah, non immaginavo…” esclamò Miriam – “Che sapesse cucinare?” proseguì Ginevra. “Beh sì, è il minimo visto che fa il cuoco”. La rivelazione di Ginevra le folgorò la mente come una saetta: ‘Il messaggio cifrato composto sul menu!’ pensò. “Ginevra, vado un attimo in auto. Prendo il necessaire per sistemarmi il trucco” e incurante delle proteste dell’amica e cercando di zoppicare il meno possibile, dato che le ginocchia le bruciavano un po’, attraversò la terrazza, uscì dal grande cancello in ferro, prese la sua utilitaria e in due minuti fu nei pressi del relitto. 

      Spense luci e motore circa venti metri prima e, indossate le scarpe da corsa che teneva sempre nel bagagliaio dell’auto, si diresse verso il peschereccio. Il grecale era cessato di botto ed una nebbia vellutata avvolgeva ora il molo e velava la luce dei lampioni che a stento illuminavano la strada ed il peschereccio. Nonostante la paura che iniziava ad assalirla, Miriam percorse con cautela la passerella che anche stavolta era poggiata sulla nave. Un miscuglio di terrore ed adrenalina le facevano vibrare le gambe. Con la torcia che si era portata dietro esaminò il pontile: le reti, le nasse, i galleggianti tutto era così come lo aveva visto la volta precedente. ‘Forse non è salito in barca e magari è andato via con un passaggio’ pensò. Dalla cambusa non filtrava luce né si sentiva rumore e stavolta non c’erano scarpe all’ingresso della cambusa. Convinta quindi di essere sola salì i primi due gradini della scaletta che conduceva agli alloggi dei marinai e si sporse in avanti con il busto per riuscire a dare un’occhiata agli interni quando, all’improvviso, si sentì trascinare via: con un unico balzo saltò i tre scalini andando ad atterrare con la testa sul palo della parabola satellitare. Il dolore le fece chiudere gli occhi ed emettere un gemito strozzato: stava per perdere i sensi ma Il freddo del metallo su cui una forza ignota le premeva il viso glielo impedì. L’aggressore poggiava su di lei tutto il suo corpo; con un braccio le cingeva il collo mentre con l’altra mano le tappava la bocca. Accortezza questa del tutto inutile dato che, per la paura che le paralizzava corpo e mente, non sarebbe riuscita ad emettere un fiato. Non era capace di pensare a come divincolarsi da quella stretta e lentamente sentì che il sangue le fluiva verso il basso tanto che le gambe cedettero e il busto si piegò di lato. “Sveglia, non è il momento di svenire” le ordinò una voce. Poi con un tono più sommesso continuò: “Ti avevo avvisata di lasciarmi in pace. Non voglio la tua compagnia né la tua pietà”. Sollevò sconsolato il capo verso il cielo: “Solo lei volevo, non mi serviva altro che noi due, io e la mia Giada. Ma poi la vita balorda se l’è portata via ed io, anche se il mio corpo vegeta ancora, giaccio nella terra insieme a lei”. Ecco cos’erano le due lettere che spiccavano sulla chiglia della nave: Raffaele e Giada. “Ora che hai visto dove sono finito puoi renderti conto di cosa il destino mi abbia riservato: qui nella solitudine e al freddo posso illudermi di stare accanto a lei”. Miriam ebbe l’impulso di consolarlo, di dirgli che anche a lei era toccato lo stesso infausto destino; avrebbe voluto dirgli che lo comprendeva, che capiva quel dolore che lei stessa provava. Non aveva lo spirito della crocerossina, si ripeteva, ma intanto moriva dalla voglia di fargli sapere che per lei lui esisteva.

Come avesse avvertito quel moto di tenerezza, Raffaele si scostò da lei con impeto spingendola via dal suo corpo. Così facendo Miriam planò sul groviglio di reti e galleggianti che le bloccarono i piedi mandandola a cadere in ginocchio per la seconda volta. Per Miriam fu la salvezza: riavutasi, si sollevò ma non fuggì. Sapeva che lui non le avrebbe fatto male, perché sentì che dentro il suo animo ardeva ancora una fiammella di speranza così, poggiatagli una mano sulla spalla guardò dentro ai suoi occhi: “Mi dispiace per il tuo dolore, io lo conosco perché è uguale al mio. Ma io non mi sono fatta trascinare dall’odio e dal risentimento: nessuno ha colpa per la nostra perdita e nessuno può aiutarci a superarla. Nessuno, tranne noi stessi”.  

Raffaele scrollò le spalle per togliersi di dosso quel contatto che ora gli bruciava come fuoco. “Ora vattene, per stasera abbiamo fatto già abbastanza”. Miriam sentì per quel povero diavolo una infinita tenerezza ma sapeva anche che lui solo poteva capire come uscire da quell’abisso. Così gli voltò le spalle, percorse un po’ barcollando il pontile e subito fu sulla banchina dove Ginevra, trafelata, correva verso di lei.

Quel pomeriggio di fine Dicembre l’allenamento sul Dragone fu intenso e bellissimo e quando Miriam scese dalla barca l’allenatrice le comunicò che l’avrebbe voluta per la stagione agonistica che sarebbe iniziata la primavera seguente: insieme alla sua Ginevra, ovviamente, che non stava nella pelle. “Ti rendi conto Miriam? Visiteremo nuove città, conosceremo atleti da tutto il mondo. Questa è la volta buona che trovo uno serio e metto la testa a posto”. Miriam le sorrise ma per tutto il pomeriggio non ebbe il coraggio di chiederle di Raffaele. Poi, come se avesse letto sul volto rabbuiato dell’amica, mentre si dirigevano alle macchine, Ginevra le rivelò che dopo quella rovinosa serata di Settembre lui non era più venuto agli allenamenti. “Quando, preoccupata per la tua lunga assenza, sono corsa a cercarti ho visto la tua macchina parcheggiata nei pressi della nave fantasma, come la chiamano qui, ma tu non c’eri dentro ed allora ho avuto paura ed ho iniziato a chiamarti. Subito dopo sei apparsa all’improvviso, anche se non ho mai capito da dove diavolo fossi spuntata né cosa stessi facendo in quella zona così solitaria. Per un attimo ho pensato che ti fossi fatta un giro su quel relitto”, chiosò ridendo. “Si figurati. Sarei folle ad addentrarmi in un posto così macabro” replicò Miriam con un sorriso forzato. “Guarda che non sono scema: ho capito che Raffaele ti piace ma, dammi retta Miri, quel ragazzo non fa per te” – sentenziò Ginevra assumendo di colpo un’espressione grave – “E’ un buon diavolo ma è ancora pieno di dolore e di rabbia e deve capire da solo come venirne fuori. Lo sai che lo spirito da crocerossina è fortemente pericoloso?”, ammiccò con un sorriso amaro. “E poi tu sei già sulla strada della guarigione, cara amica”. Dopo essersi abbracciate, Miriam salì in auto con l’affermazione perentoria di Ginevra a girarle nella testa: ‘Quel ragazzo non fa per te’. All’altezza del peschereccio scese dall’auto e con un sospiro profondo si appoggiò alla ringhiera che correva lungo tutto il molo: osservò quella massa di ferro cigolante e rabbrividì pensando a quella sera di parecchi mesi prima. La passerella era stata ritirata all’interno e tutto era immoto. Dal fondo del molo il capitano Mauro iniziava la sua corsa serale: Miriam riconobbe quella figura imponente che le veniva incontro ancor prima di notare che lui le faceva segno di aspettarlo. Quell’uomo dal carattere gioviale e paterno più di una volta aveva avuto per lei parole di affetto, forse più premurose nei suoi confronti che verso gli altri atleti e, nonostante Ginevra glielo avesse fatto notare più volte, Miriam lo realizzò proprio nel momento in cui lui le fu davanti.

“Ehi Miriam bentornata. Il ginocchio è di nuovo a posto?” le chiese con fare impacciato ed emozionato. Era trafelato per la fretta con cui aveva lasciato il Circolo per raggiungere Miriam e parlarle da solo ed ora cercava le parole giuste per assolvere ad un compito che gli era sgradito. Le raccontò infatti che quella sera di tre mesi addietro Raffaele era ritornato alla festa, lo aveva preso da parte e, con una pacatezza che non aveva più da tempo, gli aveva raccontato tutto quello che lo aveva condotto a vivere una vita piena di astio. “So da amici in comune che ha ripreso il suo lavoro di cuoco presso il ristorante dei genitori ed è andato a vivere nella loro casa di campagna” –  “Era scappato via come un demonio e rientrava da quel cancello con una serenità che non gli vedevo da anni. La moglie è morta in seguito ad un incidente d’auto e lui era alla guida: me lo ha rivelato lui stesso”. Mauro si fermò un attimo come per darsi coraggio, poi continuò: “Prima di lasciarmi, Raffaele mi lasciò questo per te”. Con mano incerta Mauro le porse un foglietto ripiegato che diceva: “Se ho deciso di salvarmi lo devo a te e per questo ti ringrazio. Ma io non sono la persona che può darti la serenità che meriti” – ‘Si è vero, non sei quello giusto’ disse Miriam sottovoce mettendosi in tasca il biglietto. Non così piano però da non essere udita da Mauro che, come se avesse preso refrigerio da quelle parole, le sorrise. “Posso invitarti a passeggiare lungo il molo? Stasera non fa ancora freddo”. – “E la tua corsa?” – “Oh, può aspettare fino a domani” replicò lui con aria serena. Miriam prese con sicurezza il braccio che lui le aveva offerto e volgendo un’ultima compassionevole occhiata al relitto indirizzò lo sguardo verso l’orizzonte, lontano, oltre un pallido sole di Dicembre che moriva dietro il suo mare amico.

 

6 risposte

  1. Questo racconto mi fa venire in mente “medico, cura te stesso”: Miriam va avanti con la sua vita, ma con il peso di una gravissima perdita nel cuore. Solo quando riconosce il proprio dolore in quello di Raffaele, comincia a vedere la vita con occhi nuovi.
    Paola, aspetto il sequel.

    1. Ciao Loredana. Della serie che l’aiuto può arrivare quando meno ce lo aspettiamo o quando non lo aspettavamo più. E comunque si, il miglior medico siamo noi stessi quando troviamo la forza per saperci tirare fuori dai guai. Non so se sono capace di scrivere una prosecuzione di una storia. Me lo avevano già chiesto per il maresciallo serena Rizzotti protagonista del racconto Compagne di scuola. Ma ci posso sempre provare, se dovesse arrivare l’ispirazione. Grazie sempre per avermi letta.

  2. Che bella storia Paola. C’è molto dolore che affiora e anche tanta consapevolezza. E il senso di una vita “recuperata” dopo un grande dolore. Il mare come sempre è un grande guaritore. E chissà, mi piace pensare che si sia il suo mistero dietro l’apertura di una nuova storia per Miriam. In fondo, capita a tutte noi di inseguire la lucciola che non fa per noi, lasciando andare quella che potrebbe invece illuminarci. Un caro saluto

    1. Cara Elena grazie per avermi letta e felice che il racconto ti sia piaciuto. Il mare ha una grande capacità di svuotare la mente dalle preoccupazioni e forse anche di guarire le nostre sofferenze. A volte è vero ci fissiamo su situazioni strampalate mentre la felicità è sotto ai nostri occhi. A presto e grazie sempre.

  3. Che dire Paola, leggerti è come bere ad una fonte di acqua fresca e leggera. Mi piace molto il tuo stile, la profondità con cui descrivi i personaggi rendendoli vivi, l’accuratezza nel descrivere tutto senza appesantire. Sei speciale e metti il cuore in tutto quello che fai. Per questo ti auguro di avere presto il successo che meriti, nel frattempo, sono lieta di godere della tua amicizia e della tua compagnia. Tvb
    Grazia Raciti

    1. Cara Grazia. Questi riscontri fanno bene al cuore e mi stimolano a continuare a scrivere. Cosa che farei in ogni caso perchè non scrivere più sarebbe come impedirmi di respirare. Per fortuna la nostra amicizia non è virtuale ma concreta. E io ti ringrazio perché mi leggi e mi sostieni sempre. E il sostegno come anche la critica costruttiva sono fondamentali per chi scrive. 🥰

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