Agosto 2023.

In una città che porta in sé solitudine e pericoli due donne si alleano per affrontare la sfida, forse tra le più ardue, della vita per strada da vagabonde. Un militare corrotto le costringe ad abbandonare quella situazione di insolito confort in cui avevano trovato rifugio. 

 

        Diritta in piedi sulla Piazza, aggrappata al mio zaino ormai vuoto che mi ostino a portare sulle spalle, come la lumaca che si porta addosso la sua casa, fisso inebetita quei portici che per tre anni sono stati la mia casa, mia e di Clelia la mia compagna di strada incontrata alla stazione nord di Catania: sotto ai portici, nascosti nell’incavo del portone degli ex uffici della Sip, tre letti distesi uno accanto all’altro sono stati tutto il nostro mondo. Il mio sacco letto al centro tra quello di Clelia a sinistra e quello vuoto a destra, ravvivato dal mio piumone di bambina a larghi quadri rosa e gialli, l’ho amato, come si può amare un sacco da ‘barbona’ che rappresenta l’unico legame con un passato che, strano ad immaginarlo ora, c’è stato per davvero; un passato da donna borghese con una casa ed un marito, una vita troppo impegnata e frettolosa per accorgermi dei tanti segnali di tradimento che lui si portava addosso dal lavoro.

Mario rientrava alle sette del mattino dopo le serate in discoteca dove faceva il buttafuori quando io uscivo dalla mia casa per recarmi in quella degli altri a fare la domestica ad ore o la badante. Ci incontravamo in corridoio lui diretto verso la camera da letto, già mezzo addormentato, ed io verso la porta d’uscita. “Niente figli”, mise in chiaro Mario appena il giorno dopo il matrimonio, “Così saremo liberi di fare ciò vogliamo”. Finché un giorno, lui decise che io ero diventata troppo noiosa e così, con un post-it sul frigorifero mi comunicò che andava dall’altra parte del mondo per iniziare una nuova vita più stimolante: ‘Raggiungo Ugo a New York. Non cercarmi per favore. Ah, mi hai fatto un piccolo prestito!’. Dal conto in comune aveva trafugato i diecimila euro che con tanta fatica avevo messo da parte. Nonostante nelle settimane a seguire mi ripetevo che sarei riuscita ad andare avanti era chiaro da subito che da sola non ce l’avrei fatta a pagarmi affitto e bollette e così, il venti novembre del 2019, senza nemmeno un centesimo in mano – anche mio padre mi aveva depredato del piccolo patrimonio immobiliare della mamma giocandoselo a carte – mi ritrovai per strada.

 

Descrivere la tempesta di pensieri che mi sconvolse la mente nei mesi durante i quali cercai di salvarmi la vita è assolutamente impossibile: correvo da un ufficio all’altro in cerca di un lavoro stabile con il quale garantire un affitto, alla ricerca di un sussidio, di un aiuto dallo Stato. Bussai a mille porte ma da nessuno ebbi risposta. ‘Vada nei centri di accoglienza per le donne’ mi dicevano ‘vedrà che un letto ed un pasto per lei ce l’hanno’. Ma non avevo figli, non ero vittima di violenze domestiche e pertanto nessuno poteva ospitarmi. Clelia la incontrai in zona stazione, seduta su una delle panchine che costeggiano la strada sopraelevata che corre tra i binari ed il mare che la gente del posto chiama ‘U’ passiaturi’ ovvero ‘La Passeggiata alla Marina’. Tra i passanti affaccendati ed i turisti che vi transitavano lei non aveva proprio l’aria di una intenta a ingannare il proprio tempo libero. Stava seduta con le gambe incrociate, lo sguardo perso sull’orizzonte e sembrava molto sporca. «Posso?» le chiesi «No» mi rispose. «Sono una barbona» aggiunse. Così iniziò il nostro sodalizio.

‘Carini vero?’ dico a Clelia per smorzare l’angoscia che ci toglie il fiato – ‘Si sto cazzo’- mi risponde lei. È arrabbiata, anche più di me, sia perché prima di incontrarci, per poter mangiare, era stata costretta a battere ma anche perché quella fragile serenità che ci eravamo costruite e che ci aveva permesso di vivere per la strada accantonando il terrore costante di essere violentate, bruciate o avvelenate, in un attimo era scomparsa. Eravamo ripiombate indietro di tre anni quando per mesi la notte restavamo sveglie, strette l’una all’altra con gli occhi sbarrati, aspettando con ansia la luce del giorno.

Questi giacigli non li spostiamo mai per non dare nell’occhio: di giorno non possiamo stare lì ma quando il buio avvolge le strade riportando la gente nelle proprie case noi facciamo ritorno nella nostra. Sullo stesso marciapiedi, a circa trenta passi da noi, c’è l’ingresso del Jolly Hotel. I clienti che vi transitano sono istruiti dal personale dell’albergo ad ignorarci e a tollerarci: gli dicono che mai ci avvicineremo loro o toccheremo le loro cose e che non siamo pericolose e così loro nemmeno ci guardano.

     La panchina su cui staziono durante il giorno si trova sulla piazza Nettuno proprio dirimpetto ai nostri sacchi, dietro un Ficus che ha un tronco così grande, rami nodosi che scendono giù come liane e fogliame talmente fitto e sempre verde che posso stare lì per ore ad osservare la gente che passeggia senza essere notata. A parte andare al centro Caritas per due pasti al giorno e un paio di volte la settimana per la doccia, quando il lavoro di ‘osservatrice’ mi annoia mi spingo fino all’altra parte della piazza dove c’è una stazione dei Carabinieri e, nascosta dentro ad una cabina telefonica che sembra essere stata dimenticata, osservo quella piccola comunità composta da sei militari. Fanno il cambio turno la mattina a mezzogiorno e la sera alle venti e ascoltando le loro chiacchere quando nel cortile si scambiano convenevoli ed aggiornamenti ed intercettando le conversazioni che provengono dagli uffici ho imparato tanto sul mondo militare: anche perché, con tutte le temperature dell’anno, il Maresciallo G. lascia aperta la finestra dell’ufficio denunce. Una mattina di caldo torrido dalla finestra giunse una voce di donna che denunciava una violenza: il suo interlocutore le diceva ‘Non abbia paura e si fidi di me’. Il tono di voce, mellifluo e malizioso, che il Carabiniere usò con la donna mi terrorizzarono al punto che saltai come una molla fuori dalla cabina proprio nell’istante in cui il Maresciallo G. stava chiudendo i battenti. La sensazione che lui mi avesse notata mi fu confermata dai fatti che accaddero nei giorni a seguire.

La settimana scorsa, erano quasi le nove di sera, dai nostri sacchi notai un luccichio, come un lampo, provenire dalla mia panchina quella dietro il Ficus gigante. Subito dopo un uomo, viso coperto da un cappello con visiera ed ampio cappotto si mosse velocemente verso l’esterno della piazza: il leggero dondolio del suo incedere mi fece pensare al Maresciallo G. che con i colleghi lamentava sempre un dolore all’anca, ‘dovuto ad una vecchia ferita causata da una pallottola vacante, durante uno scontro a fuoco’.

Scacciai quella ipotesi troppo azzardata e mi concentrai sul lampo che immaginai essere stato il flash di un cellulare usato in modalità fotografia. Quella notte io e Clelia non dormimmo ed i giorni seguenti restammo con i nervi tesi ad osservare la piazza. Da quella sera però non ci furono altri movimenti: vistosi scoperto, l’uomo che ci spiava chissà da quanti giorni, aveva dovuto interrompere i suoi appostamenti.

Ieri mattina al nostro risveglio, sul sacco a pelo vuoto, c’era un biglietto insieme ad una foto che ci ritraeva sedute sui nostri piumoni intente a giocare a carte: «Io posso aiutarvi e vi porterò via di qua al più presto – diceva il biglietto – Non abbiate paura e fidatevi di me!»  Quella frase confermò i miei sospetti.

 

                Io e Clelia in piedi sulla nostra Piazza guardiamo i nostri letti con terrore: quel rifugio che avevamo eletto a nostra fortezza andava lasciato di fretta ed io e la mia amica venivamo catapultate di nuovo verso l’ignoto. Un odio profondo e selvaggio per quell’uomo corrotto che aveva distrutto il nostro fragile equilibrio annebbiava le nostre menti.

A due chilometri dal centro c’è l’Ospizio del Buon Pastore gestito da qualche tipo di suora, ci ha informato Mario il portiere del Jolly Hotel. «Andateci, accolgono le donne in difficoltà». Perché questo siamo noi, donne in grave difficoltà che senza un riparo hanno pochissime probabilità di sopravvivere. C’era voluta la follia di un maniaco a farci prendere coscienza della nostra condizione per spingerci a cambiare il nostro destino? Con questa domanda che ci rimbombava dentro ci guardammo con gli occhi pieni di lacrime: almeno, non saremmo più state sole.

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